All’inizio, quando mi hanno proposto di entrare nel coro, ho sorriso con un po’ di imbarazzo. Io? Cantare? Con altre persone, per di più? Mi sembrava qualcosa di lontano, quasi irreale. La mia voce era una cosa che usavo poco. A volte troppo forte, a volte assente. Sempre fuori tempo, fuori posto.
Poi, un giorno, sono rimasto ad ascoltare. Non era un concerto. Era qualcosa di più fragile e vero: persone che provavano a stare insieme attraverso il respiro. Voci imperfette, voci diverse. Ma dentro quell’imperfezione c’era qualcosa che mi ha colpito. Un’armonia che nasceva non dalla precisione, ma dall’ascolto.
La prima volta che ho cantato, la voce è uscita sottile, incerta. Ma c’era. E già questo era qualcosa. Cantare in coro è strano: non sei mai solo, ma non sei mai nascosto. La tua voce conta, anche se piccola. E devi imparare a lasciare spazio a quella degli altri. Non c’è gara. C’è un ritmo comune, un equilibrio che si costruisce piano.
Nel coro, le parole si trasformano. Non sono solo suoni. Sono veicoli di senso, memoria, desiderio. Anche quando non capisco del tutto quello che canto, lo sento. Lo sento vibrare dentro. E quella vibrazione – è difficile da spiegare – fa bene. Come se aprisse varchi dove prima c’erano chiusure.
Cantare insieme è un modo per respirare nello stesso tempo. Per sincronizzare i battiti, per accordarsi senza perdere sé stessi. E accade una cosa curiosa: più ascolto gli altri, più la mia voce trova coraggio. Più mi sento parte, più mi sento persona.
Ci sono giorni in cui sono stanco, o in cui il mondo sembra troppo distante. Ma poi torno nella stanza dove si canta, e qualcosa si ricompone. La voce, anche tremante, si offre. E mentre si intreccia con le altre, sento che sto partecipando a qualcosa che cura. Non una cura imposta, ma una che nasce dal dentro: dall’espressione, dalla relazione, dal suono che ci attraversa e ci unisce.
Il coro non è perfetto. Nessuno lo è. Ma c’è bellezza nell’accordo che si cerca, nell’errore che non viene punito, nella pausa che accoglie il respiro. È un allenamento alla presenza, alla fiducia. Una palestra invisibile per chi, come me, sta imparando a stare al mondo un passo (o una nota) alla volta.
Quando si chiude la prova, spesso mi sorprendo con un sorriso. Un sorriso che non so spiegare, ma che parla per me. È il segno che qualcosa si è mosso, che qualcosa in me ha cantato davvero.
Non è solo canto. È un atto di cura. Un cammino lieve verso la salute, fatto di voci che tornano a farsi sentire.