Non so dire quando ho cominciato davvero a sentire il suono del pallone come qualcosa che mi appartiene. All’inizio era solo rumore, come tanti altri: secco, ritmico, distante. Ma poi è cambiato. È diventato richiamo, battito, segnale che era il momento di esserci. Di provare a entrare nel movimento, a stare nel tempo degli altri.
Quando varco la soglia del campo, qualcosa in me si alleggerisce. Fuori restano le domande pesanti, i pensieri che girano in tondo. Qui dentro si muove il corpo, e insieme al corpo si muove tutto il resto. I piedi inciampano, il fiato si fa corto, ma ogni passo è già parte di una cura che non ha bisogno di spiegazioni.
Il pallone rimbalza e io lo seguo. Non sempre lo prendo, non sempre lo tengo. Ma il gesto del tentare, del correre verso qualcosa, è già molto. È come ricordare al corpo – e alla mente – che esiste ancora la possibilità di dire “ci sono”.
Il canestro, lassù, sembra un piccolo sole. Cerchio sospeso, aperto e paziente. Ogni tiro che parte è un atto di fiducia. Anche se sbaglio, anche se manca il bersaglio, so che ho osato. E a volte, in quelle traiettorie storte, sento che sto imparando a lasciar andare, a provare senza temere il giudizio.
Con gli altri succede qualcosa di raro: ci si riconosce, anche senza parole. Gente diversa, cammini diversi. Ma sul campo si gioca insieme. E quel “insieme” non è solo una regola del gioco: è una medicina dolce, che lavora in silenzio. Qui nessuno salva nessuno, ma ci si accompagna. Ci si guarda, ci si passa la palla, ci si aspetta.
La fatica diventa possibilità. Il corpo, spesso vissuto come ostacolo, si fa strumento. Anche nel limite, anche nel tremore, scopre un ritmo, un modo per dire “sto tornando”.
Non succede tutto in un giorno. Ma ogni incontro è un passo. Ogni partita è un’occasione per sentire che qualcosa si muove. A volte lentamente, a volte senza accorgersene. Ma si muove. E quel movimento, piccolo o grande, è il segno che il percorso è vivo.
Quando il gioco finisce, non resta solo il sudore o il fiatone. Resta qualcosa di più: un’eco dentro, un sorriso che nasce da dentro, la sensazione di aver fatto parte di qualcosa che nutre, che sostiene, che guarisce senza rumore.
Non è solo basket. È uno spazio dove si impara a vivere di nuovo, un tiro alla volta.